#come si fa a citare un intero capitolo
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princessofmistake · 2 years ago
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La felicità, Giorgia, è una carezza che ferisce. È ghiaccio che ti scotta fra le mani. È rumore e frastuono ma, se la ascolti bene, è la sola cosa che potrai chiamare davvero musica.
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frabooks · 2 years ago
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Il Maestro e Margherita - Composizione del romanzo e opinioni generali
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Contesto e autore
Il Maestro e Margherita è un romanzo di Michail Bulgakov scritto tra il 1928 e il 1940, durante il regime di Stalin, ma fu pubblicato postumo solamente tra il 1966 e il 1967. Come dice Alessandro Barbero, Bulgakov fa parte di quella disgraziata generazione nata alla fine dell’800 che ha vissuto un periodo incredibilmente duro: la Prima Guerra Mondiale, la peste, la Rivoluzione d’Ottobre, la grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale.
Era un personaggio difficile e atipico. Ha avuto tre mogli, era scrittore di teatro ma per lunghi periodi non è riuscito a farsi accettare (o, in generale, a entrare) nel mondo accademico sovietico, forse anche per la provenienza “bianca” (zarista); era dipendente da morfina. Giusto per citare tre tratti della sua personalità.
Il Maestro e Margherita è stato IL suo romanzo, il romanzo sul diavolo, come l’aveva definito lui. L’ha scritto e riscritto mille volte ed è stata un la sua ossessione, tanto che le ultime parole le ha dettate poco prima di morire alla moglie.
È un romanzo che si potrebbe definire d’amore, c’è la storia tra il Maestro e Margherita che ci aiuta in questa definizione. In realtà è un romanzo molto più vasto di così: Bulgakov ci ha voluto mettere dentro tutto, rendendolo larghissimo e sfaccettato.
La trama.
O, per meglio dire, le trame.
La prima trama è quella di Woland, il diavolo, e dei suoi accoliti, che arrivano a Mosca. Creano scompiglio, giudicano, puniscono, scherniscono i moscoviti, fanno il Gran Ballo di Satana dove sfilano migliaia di peccatori, fanno promesse.
Woland appare nel primo capitolo, inserendosi in un dialogo tra Berlioz e Bezdomny riguardo l’effettiva esistenza di Gesù. Berlioz è il direttore di un’importante associazione culturale, il Massolit; ha assegnato un poema che accertasse la non esistenza di Gesù a Ivan Nikolaevic Ponyrev, detto Bezdomny (il senza casa), poeta ignorante e di scarso valore. Nella Russia sovietica atea era un fatto assolutamente normale. Woland, il diavolo, sotto le spoglie di un artista straniero specializzato nelle arti oscure, li interrompe e certifica che Gesù esiste e lui lo può testimoniare.
È la trama più corposa e densa di eventi: fisicamente occupa più capitoli e pagine.
La seconda trama è la storia d’amore tra il Maestro e Margherita. Conosciamo il Maestro solo al tredicesimo capitolo, in cui racconta a Ivan Bezdomny la sua storia, dal romanzo che sta scrivendo all’incontro con Margherita, fino alla sua discesa nella pazzia e la successiva separazione dalla sua amata.
Il Maestro e Margherita sono senza dubbio i protagonisti del romanzo, insieme a Woland, non foss’altro che il Maestro è Bulgakov e Margherita la sua terza moglie.
È la trama più lirica e poetica.
La terza trama riguarda Ponzio Pilato e Ha-Nozri, ossia Gesù.
Scopriremo (proprio al capitolo tredicesimo) che questa storia è il romanzo che ha scritto il Maestro. Racconta della cattura, del giudizio e dell’uccisione di Ha-Nozri e del suo incontro con Ponzio Pilato; anzi, il punto di vista principale (ma non l’unico) è proprio quello di Pilato, il quinto procuratore della Giudea e cavaliere.
È una trama nella trama, eppure è cruciale nello svolgimento del romanzo, tanto da fornire l’ultima, famosa, frase del romanzo intero: “il quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato”.
È la trama più simbolica.
Il primo capitolo è dedicato alla prima trama.
Il secondo capitolo è dedicato alla terza trama.
Fino al tredicesimo capitolo si alterna la prima trama con sprazzi della terza. Poi, al tredicesimo, si fondono la prima e la seconda trama, con Ivan Bezdomny che incontra il Maestro. 
Negli ultimi capitoli le trame si fondono del tutto.
So che può sembrare complicato, con la giusta introduzione, non lo è.
Personaggi
Prima trama
Il diavolo e i suoi accoliti
Woland, il diavolo, si presenta come artista di magia oscura con in programma uno spettacolo al teatro di varietà.
Behemot, enorme gatto parlante, egocentrico, imbroglione, veggente.
Azazello, l’assassino, basso con spalle larghe e un canino sporgente.
Korov’ev (detto anche “Fagotto”), l’aiutante di Woland, il suo maggiordomo, il suo portavoce; bizzarro, esagerato, se ne va in giro spesso con Behemot.
Hella, l’unica donna del gruppo, che se ne va in giro sempre nuda e che ha una cicatrice trasversale sul collo.
 Vittime del diavolo e della sua gang
Ivan Bezdomny, il poeta scapestrato con cui parla il Maestro; rinnegherà le sue opere, impazzirà dopo aver assistito alla morte di Berlioz, poi si scoprirà schizofrenico e alla fine troverà la pace.
Berlioz, direttore del Massolit, morirà al terzo capitolo nel modo esatto che aveva previsto Woland nel primo capitolo, tornerà solo al Gran Ballo di Satana. Lascerà il famoso appartamento in cui soggiorneranno Woland e i suoi al 302 bis della Sadovaja.
Natasa, cameriera di Margherita, la incontriamo brevemente nella seconda parte.
I seguenti cinque saranno vittime di Woland e della sua banda e sono tutti collegati al teatro di varietà. Ciò che succede loro sarà allo stesso tempo esilarante e inquietante; finiscono tutti male, in un modo o nell’altro.
Stepa Lichodeev, direttore artistico del teatro di varietà, condivide il famoso appartamento col defunto Berlioz, finisce comicamente a Jalta.
Rimskij, direttore finanziario, 
Varenucha, segretario amministrativo del teatro di varietà.
Bengalskij, presentatore del teatro di varietà.
Nikanor Ivanovič Bosoj, presidente della cooperativa degli inquilini della casa al numero 302 bis della Sadovaja, finisce male anche lui quando, inspiegabilmente, si ritrova della “valuta” (dollari), in casa.
Seconda trama
Maestro, vince alla lotteria, così affitta un seminterrato e inizia a scrivere il suo romanzo, poi incontra Margherita che lo soprannomina Maestro.
Margherita, sposata con un uomo a cui vuole bene ma che non ama, solitaria e depressa; se non avesse incontrato il Maestro, si sarebbe gettata nel fiume perché “la sua vita era vuota”.
Terza trama
Ponzio Pilato, procuratore della Giudea; deve giudicare Ha-Nozri ma da questo evento la sua vita prende una piega inaspettata a causa del senso di colpa. Vero protagonista di questa trama.
Ha-Nozri, Gesù, condannato per sedizione (diceva che esisteva Dio e che non era “il Cesare”, cioè l’imperatore romano).
Levi Matteo, unico adepto di Ha-Nozri, sarà fondamentale.
Stile
Lo stile di Bulgakov in questo romanzo, secondo me, è pressoché perfetto perché tiene insieme quattro anime diverse ma complementari: il ritmo che alterna alti e bassi, i momenti di assurdo, i riferimenti e le metafore, i momenti poetici.
Il registro, anche all’interno degli stessi capitoli, è un continuo sali-scendi, un continuo alto e basso perfettamente orchestrato. Alterna descrizioni quotidiane insignificanti o situazioni comiche a momenti altissimi in cui ci sono i versi più potenti del romanzo. Il continuo saliscendi rende il romanzo molto godibile e fresco, e fa apprezzare ancora di più i momenti in cui Bulgakov vuole davvero dire la sua.
Ci sono costanti e frequenti momento di assurdo. Un tizio che si sveglia ancora devastato dalla sbornia della sera prima e che entro 10 minuti si ritrova a Jalta. Gente che si vede la testa tagliare senza morire e che poi torna sano e con la testa a posto. Gente che si spalma una crema e diventa una strega; un’altra strega che cavalca un maiale volante. L’anima assurda del romanzo è perfetta perché tiene insieme il lato comico con il lato inquietante e pauroso di Satana. 
Il romanzo è zeppo di riferimenti e metafore. Nell’edizione che ho letto l’ultima volta, del 2020 tradotta da Margherita Crepax ed edita da Feltrinelli, ci sono decine di note. È IL romanzo di Bulgakov perché ci ha voluto inserire tutto il suo pensiero, tutte le critiche alla sua attualità, al contesto sovietico e accademico, ma anche riferimenti personali filosofici (il Faust o il cristianesimo). Senza le note, non avrei capito nulla di tutto ciò. Sono riferimenti e metafore di per sé inutili ai fini del romanzo, ma sono importanti per il loro ruolo “politico”. 
In ultimo, la prosa e la poetica di Bulgakov è perfetta. Quando vuole dare la scossa, usa uno stile lineare e semplice, non usa periodi complessi o parole astruse; preferisce costruire un momento con le situazioni e il contesto. Ha la capacità di trasmettere tutta la potenza della sua poesia in poche, semplici frasi. Frasi che se lette fuori dal contesto significano, in realtà, ben poco. Sicuramente è un romanzo che emoziona e che difficilmente lascia indifferenti. Bulgakov descrive in modo originale ma incisivo emozioni enormi come l’amore, la paura e l’angoscia. Ma anche la frustrazione, l’incomprensione, la rassegnazione.
Cos’è per me Il Maestro e Margherita
Ho scoperto il romanzo grazie a un intervento del professore Alessandro Barbero proprio in merito a questo romanzo. È stato un intervento che mi ha emozionato e che mi ha spinto a sentirlo una prima volta in versione audiolibro; l’ascolto mi ha toccato e emozionato (sì, di nuovo). Dopo qualche mese ho deciso di leggerlo e lì è successo il vero fattaccio, il vero colpo; è leggendolo su carta che mi ha definitivamente cambiato.
Mi ha colpito per due motivi: i temi che tratta e il modo in cui mi si è cucito addosso.
Alcuni temi che mi hanno catturato sono, ad esempio, l’amore predestinato eppure difficile, lo sfilacciamento delle relazioni, la malattia mentale. Forse ci sono anche la compassione, l’ossessione, l’accettazione da parte degli altri.
Mi si è appiccicato addosso perché mi sono rivisto in molte situazioni. Non starò a descrivere le situazioni perché sono personali. È un romanzo che ho apprezzato e che ha avuto, per me, un simile impatto anche per il momento in cui l’ho incontrato. Sono certo potrà non essere apprezzato né tanto meno avere un impatto simile per altri, è assolutamente normale sia così.
Come ho già detto in altre sedi, è un romanzo che ha segnato, in me, un prima e un dopo. Sentire esprimere con parole e situazioni perfette a Bulgakov eventi, emozioni, sensazioni che ritengo siano nel mio quotidiano (o nel mio recente passato, ancora fresco), è fonte di enorme commozione. 
Per questo è il romanzo più significativo che abbia mai letto, anche se forse non il più bello in assoluto.
Chiudo dicendo che spero che chiunque possa vivere il momento perfetto in cui incontra il SUO romanzo, il suo Il Maestro e Margherita, qualsiasi romanzo sia, perché quel momento è prezioso.
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fondazioneterradotranto · 5 years ago
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Dialetti salentini: "rinacciare"
di ArmandoPolito
carboncino di Henri Toulouse-Lautrec, 1882
  Fin dal 1957 Vance Packard in The hidden persuaders aveva individuato i nefasti effetti della pubblicità connessa con una politica industriale basata sulla creazione di bisogni, certamente non primari e neppure secondari e che sfruttava tecniche cinicamente mutuate dalla psichiatria e dalla psicologia del profondo.  Da allora acqua, sempre più inquinata …,  ne è passata, e continua a passarne,  sotto i ponti, e da formule pubblicitarie che oggi fanno tenerezza si è passati alle attuali, alcune delle quali mi fanno dubitare della salute mentale dei geni che le hanno partorite, nonostante, in un sussulto di modestia, ogni tanto mi chieda se non dipenda da mia deficienza la loro da me presunta demenzialità.
Nel frattempo, mentre il pianeta appare già in uno stato comatoso irreversibile, e l’obsolescenza programmata è diventata lo strumento fondamentale per alimentare il consumismo ed il connesso profitto di pochi, i grandi della terra nelle loro, immagino costosissime, cene di lavoro riescono solo a rilasciare dichiarazioni tanto roboanti nei toni quanto banali e scontate nella sostanza e bene che vada sini capaci solo di mettersi d’accordo con un formale impegno, privo di qualsiasi concretezza, a ridurre le emissioni nocive entro un ventennio, salvo revisione, naturalmente al rialzo …
Qualcuno si starà chiedendo che rapporto possa mai esserci tra questa sparata iniziale ed il verbo del titolo. Lo scoprirà leggendo e, soprattutto, riflettendo su quale futuro attende i suoi discendenti col presente che stiamo vivendo e sul quale per quelli della mia generazione aleggia ancora il ricordo del passato, non condizionato più del dovuto dalla scontata laudatio temporis acti (lode del tempo trascorso).
Rinacciare corrisponde all’italiano rammendare e, per quanto s’è detto all’inizio, le due voci continueranno ad essere usate solo in senso metaforico, magari soltanto a livello letterario: a rinacciare un calzino, per esempio non sarà più (veramente non lo è più da decenni) una nonna, una madre o una sorella ma un medico a farlo maldestramente con una ferita o una coppia con la sua unione bisognosa di una ricucitura.
Rinacciare è una di quelle voci dialettali formate da componenti che, separatamente, sono presenti nella lingua comune. Nel nostro caso esse sono: ri– (prefisso indicante ripetizione); in (preposizione); accia (sostantivo, sinonimo di gugliata, che è il pezzo di filo che si infila nella cuna dell’ago per cucire). La voce dialettale ha unito i tre componenti con eliminazione, per intuitivi motivi eufonici,  della i del prefisso ripetitivo, dando al totale (con l’-are finale) la marca di verbo.
Se ri– deriva dal prefisso latino re– con le stesse funzioni di ripetizione dell’azione, se in è anch’essa dalla stessa preposizione latina, da dove deriva accia?
È anch’essa dal latino acia(m), voce presente in quello classico e che continua, tal quale (poi dalla fine del XIII secolo ci sarà la geminazione della c), nel latino tardo, come mostra la scheda che riproduco, traducendola con l’aggiunta di qualche nota, dal lessico del Du Cange.
ACIA, in Glossario latino-greco è definita ῥάμμα1, che è lo stesso che sutura; e usa acia Petronio2 in un suo passo3: Mi espose tutto per filo ed ago4, cioè in francese: M’ha raccontato tutto, dal filo all’ago. Voce di antica origine, che designa propriamente il filo usato per cucire. La usò con questo significato il poeta comico Titinnio secondo quanto si legge in Nonio Marcello5; la medesima anche Celso6 libro 5 capitolo 267. Su quest’argomento parecchio si trova in Turnèbe8 libro XVII capitolo 21 di Adversaria. Per gli italiani accia è il lino o la stoppa. Questa voce ricorre negli Statuti milanesi, seconda parte, capitolo 308.
Riporto di seguito la scheda del Turnébe, anche perché il Du Cange sarebbe stato più corretto se l’avesse copiata così com’è per intero o avesse dichiarato che non “parecchio” ma “tutto” vi si trovava.
(per facilitare la lettura della traduzione ho scelto per questa il carattere corsivo ed ho racchiuso volta per volta il commento in parentesi quadre)
Come l’ago, parimenti l’accia era tra gli strumenti del ricamatore in oro ed era il filo del piccolo ago
[acicula dell’originale è diminutivo di acus; il dialetto salentino ha il suo esatto corrispondente in acuceddha, usata in passato soprattutto per infilzare le foglie di tabacco o per rammendare i sacchi]
d ha il nome da acies:
[acies=punta; fa parte di una vasta famiglia connessa con una radice ac– indicante cosa appuntita, di cui fanno parte in italiano acciaio, acacia, acuto, acre, acido, aceto, aguglia, guglia …,  tutti derivati da altrettanti termini latini; per il greco basti citare l’aggettivo ἄκρος (leggi acros)=estremo,  primo elemento di composti come acrobata, acropoli, acrostico …; per il dialetto salentino oltre alla citata acuceddha (anche nella forma cuceddha per errata deglutinazone della a– (l’acuceddha>la cuceddha>cuceddha) favorita forse dall’influsso di cucire) àcura corrispondente all’italiano aguglia (il pesce)]
Titinio: Mi ebbe come schiavo per primo un frigio; appresi questo lavoro./Ho lasciato gli aghi e i fili al padrone e alla mia padrona. Celso libro 5 capitolo 26: entrambe sono ottime di filo molle non troppo ritorto, perché più delicatamente penetri nel corpo. In un antico lessico latino-greco acia è tradotta in ῥάμμα  [vedi nota 1], anzi acia e aciela in esso sono spiegati come ἀκαλύφη [errore di stampa per ἀκαλήφη=asprezza].     
___________
1 Leggi ramma.  Con essa non ha nulla a che vedere rammendare, che è da ri+ammendare (quest’ultimo da ad+menda)
2Petronio Arbitro (I secolo d. C.)
3 Satyricon, XVII.
4 Corrisponde al nostro per filo e per segno, in cui, però il filo è quello usato un tempo dagli imbianchini per delimitare con precisione la superficie da trattare. Intinto nella vernice, veniva rilasciato di colpo a lasciarvi la linea di demarcazione.
5 Grammatico romano del III-IV secolo, autore del De compendiosa doctrina per litteras ad filium, dove il frammento citato dal Du Cange è al lemma Phrygiones: Reliqui acus aciasque ero atque erae nostrae (Ho lasciato i fili e gli aghi al padrone ed alla nostra padrona)
6 Aulo Cornelio Celso (I secolo a. C-I secolo d. C.).
7 De medicina, V, 26: Utraque optima est ex acia molli … (Entrambe [le suture] sono ottime di filo molle …
8 Adrien Turnèbe o Tournebeuf (nome  latino Adrianus Turnebus), filologo del XVI secolo, autore di Adversaria.
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pangeanews · 5 years ago
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“Guardandosi, l’uomo si scopre disumano, un’anima mostruosa”: dialogo con Franco Rella
Il pensatore mette l’indice nella ferita, la slabbra, fino al virus che diventa gioia. Dà accesso all’inaccessibile, scaraventa gli occhi in ciò che va ignorato, non va detto, celato dal fondotinta del consenso e del corretto. Il pensatore va al fondamento, al cadavere primo che ha dato origine alla civiltà, alla parola che pone un ago sull’ombelico, sta nel gorgo della stimmate. Da Scritture estreme (Feltrinelli, 2005) a Immagini e testimonianze dell’esilio (Jaca Book, 2018), per citare due libri da una bibliografia poderosa, Franco Rella fa così: s’intride nell’oscuro, esplora l’inenarrabile e l’escluso. Così, nell’ultimo libro, Territori dell’umano (Jaca Book, 2019), il filosofo fa scempio di ogni retorica e ci scaglia in petto il Minotauro: la mostruosità dell’uomo, l’ineluttabile disumanità, l’avvio al tremendo (“Molte ha la vita forze/ tremende; eppure più dell’uomo nulla,/ vedi, è tremendo”, è l’apice di Antigone secondo la traduzione di Hölderlin). “L’io faccia a faccia con se stesso si scopre ‘un’anima mostruosa’. Trova in sé l’inumano e il disumano. Cosa ci ha raccontato Shakespeare di Macbeth, del suo incontro con le streghe, e dell’incubo di sangue che lo perseguita? Cos’altro ha detto Melville raccontando la lotta di Achab con la balena bianca, e Bartleby immobile con la faccia contro un muro? Cos’è la metamorfosi dell’umano nel mostruoso nel bal des têtes che Proust ci presenta come un atroce cerimoniere, quasi a conclusione della Ricerca del tempo perduto? Cosa racconta Odradek con quella voce che sembra il fruscio di foglie cadute?”. Con devozione amanuense, Rella scava nelle grandi opere letterarie – qui c’è Cuore di tenebra di Conrad e Pornografia di Gombrowicz, Simone Weil e Kafka, Ballard, Baudelaire, Canetti –, in ciò che sfugge perfino alla volontà dello scrittore, sfogando enigmi. Non conta il florilegio delle citazioni (ma l’“ultima annotazione” di Rilke dal “suo ultimo quaderno”, alla mercé di sconfitta e dolore è sconfinata: “Vieni tu, tu ultimo ravvisato,/ Tu, insanabile dolore, intramato/ ora nel corpo. Un tempo nello spirito,/ ecco, in te, sonio io ora calcinato…/ Salii, nudo, puro, né progetti,/ né futuro, sull’intrico/ del rogo del dolore”): i verbi servono per affondare nell’uomo, per sondarne le ossessioni, con una quieta veemenza che ha sentore di necessità. (d.b.)
L’io faccia a faccia con se stesso “si scopre ‘un’anima mostruosa’. Trova in sé l’inumano e il disumano”. Dunque, è questo l’uomo? Della sua vita labirintica scopre di essere Minotauro. Dimmi.
Nel libro ho citato un pensiero di Valéry che ho più volte richiamato. L’uomo, dice Valéry, incontra l’indefinibile: l’indefinibile della morte e l’indefinibile dell’io. Credo che andare a fondo dell’io sia un’impresa problematica e coraggiosa. Qualche anno fa ho scritto un testo, Alla ricerca dell’io perduto. Perduto o forse mai davvero ritrovato. Ci vuole animo per percorrere i labirinti che ci portano nella profondità dell’io, che ci fanno avvertire il gusto aspro del buio e delle tenebre, per poi salire sulla vertigine dei sogni più audaci. In un altro testo – anche questo citato nel mio libro – Valéry proponendo un suo Faust fa affermare a Mefistofele: “Felice l’uomo che va dal Bene al Male, dal Male al Bene, ponendosi tra la luce e le tenebre; e adora e rinnega; percorre tutti i valori che la carne e lo spirito, gli istinti, la ragione, i dubbi e i casi, introducono nel suo assurdo destino, può vincere o perdere… ma IO!… essere il diavolo è ben misera cosa”. Ma già sant’Agostino aveva detto che l’io è una incontenibile molteplicità. L’uomo che si china scrutare dentro il proprio io si scopre angelo e bestia, scopre la densità dell’umano che tiene in sé anche il disumano e l’inumano. È il grande insegnamento di Kafka.
Nel tuo libro ti riferisci spesso a Melville e a Kafka. Cosa tiene insieme la Balena Bianca e lo scarafaggio, Achab e Odradek?
Melville e Kafka sono più che due immensi scrittori. Sono degli ossessi, ossessionati della propria ricerca che è per loro un destino. Ciò che li tiene insieme è essere arrivati all’estremo. La nave che affonda in Moby Dick portando con sé tutto, compreso un pezzo di cielo, meno Ismaele che sopravvive a cavallo di una bara per raccontare il faccia a faccia di Achab con la sua ossessione, con il mostro bianco. Il faccia a faccia di Gregor Samsa, di Franz Kafka, con l’immane insetto della Metamorfosi è anch’esso un confronto con l’animalità che è indissolubilmente legata all’umanità, perché l’insetto continua nell’orrore della sua mostruosa animalità ad avere pensieri umani. È questo che sconvolge e che fa di questo racconto un’esperienza unica che si imprime nelle nostre coscienze. Infine Odradek che è il personaggio di Kafka che va oltre tutto. Non è uomo, anche se parla, non è animale. È uno strano oggetto che vaga sui corridoi, sulle scale, nelle soffitte, senza fissa dimora, da tutto esiliato. È un essere disumanato, come tanti esseri che sfilano davanti a noi resi muti dalla sofferenza. Forse, come ha detto George Steiner, Kafka è in modo inquietante profetico.
Fin da subito imponi un tema: da testimoni di un fatto, di cui dunque portiamo testimonianza (il ‘testimone’ si passa anche nella staffetta…), siamo passati a essere spettatori di uno spettacolo subito. Come mai?
L’alternativa – spettatore/testimone – si è sempre posta. Essere spettatori di ciò che accade senza esserne coinvolti, oppure testimoniare. Nel primo caso c’è, a mio giudizio, complicità con le forze che si abbattono sui deboli, penso per esempio alla tragedia dei migranti, con cui siamo confrontati ogni giorno. O, invece, essere testimoni, per quanto debole possa apparire la forza della nostra testimonianza. Con il mio libro ho cercato di farmi testimone dei terribili tentativi di sottrarre umanità agli esseri umani.  Sto parlando del destino dei migranti, ma anche dell’orrore dei regimi tirannici e dittatoriali, con cui non solo conviviamo ma con cui concludiamo affari. Un mercato osceno in cui a prezzi stracciati si smercia umanità. Parlo anche della colonizzazione delle coscienze tesa, appunto, a far tacere il testimone, a trasformarlo in spettatore.
Metto insieme due citazioni. Canetti che parla di Kafka: “Bisogna sdraiarsi per terra tra gli animali per essere salvati”. E l’ultimo verso della poesia estrema di Rilke: “E io in fiamme. Da Nessuno riconosciuto”. Forse l’uomo, per compiere la propria umanità, deve essere a sé irriconoscibile, forse deve mutarsi in altro da sé. Lavorare per sconfiggersi. Comunque, deve mutare stato, deve abbassarsi, deve sparire, deve bruciare. Ritieni sia così?
Credo che Rilke voglia dire che il dolore è in grado di assorbire tutto, di ingoiare tutto, anche a nostra identità: “Da Nessuno riconosciuto”. Canetti attribuisce a Kafka una lotta contro il potere a cui ci si sottrae anche mettendosi a terra, dunque al di sotto della furia del potere. Si è così salvati? In realtà i topi della Ferrovia di Kalda temono e al contempo sono aggressivi, non danno tregua, premono dalle fessure che stanno rasoterra, tra parete e il terreno. Cosa teme poi l’essere protagonista del racconto La tana? Cosa può incontrare nei cunicoli che egli ha scavato sotto terra per proteggersi, se non feroci piccoli animali? Ecco, forse si potrebbe dire che attraversando l’impenetrabile cortina del dolore, e avvicinandosi ai terrori animali, si scopre un’ignota dimensione dell’umano. Ma non ho certezze a proposito.
Tra i testi che citi. Il Kurtz di Conrad che vede solo l’orrore, Gombrowicz, invece, che ha lo sguardo lascivo, che si lascia al grottesco, al comico dell’uomo. Come conciliare le visioni? L’uomo è orrendo, è grottesco, è inumano… cosa?
Marlow è il grande testimone della follia e dell’orrore di Kurtz. È questo che egli porta con sé dal cuore di tenebra fin dentro la city of dead che è nel cuore dell’Europa. Gombrowicz è grottesco, lascivo, come dici, ma al tempo stesso fa emergere in molti suoi testi, attraverso le maglie del grottesco, la percezione di un dolore assoluto, che diventa la trama non solo dell’uomo ma dell’universo intero, del “Cosmo”, come egli intitola uno dei suoi libri più emblematici. La follia di Kurtz, l’orrore della foresta, il grottesco, l’inumano, accanto all’ebbrezza e magari alla gioia: tutto questo e molto altro è l’uomo, è l’umano. Siamo noi.
Concludi dando lettura di alcune icone dell’arte, come mai? Che testimonianze vedi in quelle raffigurazioni e quale opera ti ha sconvolto?
Credo che alcune delle raffigurazioni che ho riportato nel penultimo capitolo siano iconiche nel dare forma e figura all’umano nel rapporto con il dolore, con la morte, con il potere, dunque con le istanze a cui ci troviamo costantemente confrontati. Sono solo alcune icone. Leggendo credo si capisca quanto io ne sia stato colpito, quando continui ad esserne colpito e inquietato. Queste sono solo alcune. Potrei ricordarne molte altre. Ne ricordo solo una: lo sguardo del ragazzo in primo piano de Le dejeneur dans l’atelier di Manet che ho visto per la prima volta direttamente quest’estate a Monaco. Uno sguardo perduto verso un altrove che avvertiamo subito come un luogo misterioso che ci riguarda, che ci riguarda da vicino.
L’epilogo lo dedichi al bambino, all’infanzia. In una forma aforistica. “Nessuno sa la vita e la morte come la sanno in profondità i bambini… Nessuno sa la solitudine come i bambini”. Cosa testimoniano allora i bambini?
Quando ho scritto quelle pagine ho capito che il libro era finito. Che non avrei potuto scrivere una parola in più. Quelle pagine sono una sorta di raccomandazione a guardare, a cercare di guardare nella misteriosa umanità infantile, che si è declinata nelle grandi fiabe che oggi abbiamo dimenticato e che non siamo più in grado di leggere.
*In copertina: intorno all'”Annunciazione di Recanati” di Lorenzo Lotto, del 1534 circa, Franco Rella scrive pagine ispirate nell’ultimo libro, “Territori dell’umano” (Jaka Book, 2019)
L'articolo “Guardandosi, l’uomo si scopre disumano, un’anima mostruosa”: dialogo con Franco Rella proviene da Pangea.
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levysoft · 7 years ago
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Xbox Live, e tutto ha inizio
Gli achievement nascono sette (e passa) anni fa, per la precisione il 22 novembre 2005, ovvero il giorno in cui Xbox 360 viene lanciata sul mercato statunitense (arriverà in Europa pochi giorni dopo, il 2 dicembre dello stesso anno). Inizialmente ci facemmo tutti poco caso, presi dalla voglia di ammirare i videogiochi in HD e persi nelle mille altre meraviglie di una console che finalmente proponeva un sistema operativo pieno di possibilità, almeno fino all’eventuale comparsa del Red Ring of Death. Ma pian piano, gli Obiettivi e il Gamerscore si fecero conoscere, eccome se si fecero conoscere. Il pop-up “Achievement Unlocked” (che in italiano recitava “Risultato Sbloccato”, successivamente corretto nell’attuale “Obiettivo Sbloccato”) cominciò a entrare nella testa di molti videogiocatori, grazie anche al suono che lo accompagnava, ormai diventato leggendario.
Se ne cominciava a parlare su riviste e siti specializzati, ma soprattutto tra videogiocatori: sbloccare obiettivi e accumulare Gamerscore iniziava a diventare, per molti, non solo un qualcosa in più, ma spesso e volentieri anche uno dei motivi principali per portare a termine un gioco. Insieme a siti e forum completamente dedicati all’argomento, nascono anche molte espressioni gergali, come “achievement whore”, dedicata a quelli che, pur di sbloccare il maggior numero possibile di obiettivi, erano disposti a giocare giochi che normalmente non avrebbero considerato neanche per sbaglio.
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È possibile consultare gli Obiettivi di Xbox Live anche su Xbox.com.
L’idea degli achievement, introdotta con Xbox 360 da Xbox Live, era decisamente una roba notevole, che evidentemente non ha lasciato indifferenti i responsabili di altri servizi online e gaming network. Come vedremo, infatti, ben presto agli Obiettivi di Xbox Live si aggiungeranno gli Achievement di Steam, i Trofei del PlayStation Network, le Imprese di World of Warcraft (poi allargate a una serie di achievement, non ancora unificati, per i giochi Blizzard), le Medaglie di Game Center e tantissimi riconoscimenti simili per altri network. Il sistema di Obiettivi proposto da Xbox Live, però, oltre ad essere il primo di un certo tipo ad aver visto la luce, è anche rimasto probabilmente il migliore e più completo, nel corso di questi sette (e passa) anni. Gli altri sistemi hanno portato delle migliorie in alcuni aspetti, ma non sono riusciti a superare, e spesso neanche a eguagliare, la completezza offerta da Obiettivi e Gamerscore su Xbox Live.
Gli Obiettivi di Xbox Live funzionano in un modo molto semplice, che ormai tutti conosciamo benissimo. Ogni gioco ne propone un tot (inizialmente il massimo era 50, ma poi molte eccezioni sono intervenute, fino a mettere in crisi questa regola) e ad ogni obiettivo è associato un certo ammontare di Gamerscore (i famosi punti G che vanno a comporre il Punteggio Giocatore), per un totale di 1000 punti G a gioco, per quanto riguarda i titoli retail, ovvero quelli venduti nei negozi e da qualche anno disponibili anche per il digital delivery sul Marketplace di Xbox Live, sotto il nome di Games on Demand (Giochi a richiesta). Il massimo di 1000 punti (che ha dato vita al neologismo “millare”, ovvero “completare un gioco sbloccandone tutti gli Obiettivi e ottenendo così i 1000 punti di Gamerscore”) è stato infranto dai DLC, che hanno cominciato ad aggiungere ulteriori obiettivi e ulteriori punti G ad alcuni titoli. Il primo gioco a superare la soglia dei 1000 punti è stato Oblivion, che con il DLC Shivering Isles, uscito nel 2007, passava dai 1000 ai 1250 punti di Gamerscore. A partire da quel momento, molti altri titoli hanno fatto lo stesso, mentre altri si comportavano diversamente, aggiungendo meno punti per ogni DLC pubblicato. Inizialmente, infatti, i 250 G erano il massimo consentito per tutti i DLC. Col passare degli anni anche questa regola è cambiata e oggi alcuni titoli (come ad esempio Gears of War 3), completi di DLC, possono arrivare a proporre un massimo di 2000 G.
I giochi appartenenti alla categoria Xbox Live Arcade, invece, hanno sempre offerto un massimo di 200 G (suddivisi generalmente in 12 Obiettivi), ma recentemente l’ammontare di Gamerscore per ogni titolo XBLA è stato portato a 400 G (eventuali DLC esclusi). Anche qui, ovviamente, ci sono delle eccezioni, come quella di The Walking Dead, gioco XBLA suddiviso in cinque capitoli, con 100 G per capitolo, per un totale di 500 punti.
L’accumulo di Gamerscore è una delle caratteristiche di Xbox Live che più ha preso piede tra gli appassionati di achievement. Mentre per molti gli Obiettivi hanno rappresentato e rappresentano un modo per sfruttare più a fondo un videogioco, per alcuni sono diventati una vera e propria passione a parte, come una sorta di collezionismo digitale, come la partecipazione a una classifica mondiale. Classifica mondiale che, in effetti, alcuni siti indipendenti (come il meraviglioso MyGamercard.net, poi purtroppo chiuso) proponevano anche, stuzzicando la competitività di molti accumulatori di Gamerscore. Qualcuno, poi, ne ha fatto quasi una mezza ragione di vita. È il caso di Stallion83, che si è posto come obiettivo (eh, sì) il raggiungimento di 1.000.000 di punti G. In questi giorni ha superato quota 840.000, una cifra che chiunque abbia provato ad accanirsi anche solo un po’ con gli achievement di Xbox Live può tranquillamente riconoscere come completamente folle (per capirci: io ho raggiunto i 100.000 G nel 2010, e tra il 2007 e il 2010 non ho giocato proprio pochissimo).
La cosa ha funzionato anche perché è sempre stato molto facile “socializzare” il proprio profilo Xbox Live. Anche negli anni in cui Facebook e Twitter non erano ancora nel momento di boom, sui vari forum dedicati ai videogiochi spopolavano le Gamercard, immagini che si autoaggiornavano con gli ultimi giochi giocati, gli ultimi Obiettivi sbloccati e con il Gamerscore totale, che venivano utilizzate come firma o come avatar. Una realtà, quindi, non confinata alla sola Xbox 360, ma in grado di ripercuotersi anche nelle altre attività sociali dei videogiocatori.
Tra i siti di appassionati dedicati al fenomeno è impossibile non citare Xbox360Achievements.org, fondamentalmente un forum in cui gli utenti si scambiano dritte su come “millare” (il più velocemente possibile) i vari titoli, con liste di giochi considerati “quick 1000” e altre utilità. (Su quest’argomento magari torneremo in futuro, perché ci sono considerazioni interessanti da fare).
È possibile sbloccare Obiettivi e accumulare Gamerscore anche con alcuni giochi per PC della serie Games for Windows - LIVE, con alcuni giochi per WindowsPhone, con alcuni giochi per Windows 8 e perfino con la versione iOS per Wordament, che al momento è l’unico gioco con Obiettivi Xbox Live per i dispositivi di casa Apple e di qualunque altro sistema non Microsoft, e potrebbe rappresentare un interessante inizio.
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PlayStation Network arriva in ritardo
Una delle accuse più frequenti mosse a Sony nel periodo iniziale di PlayStation 3 riguardava il ritardo con cui il colosso giapponese si è mosso, rispetto alla concorrenza, su tutta una serie di aspetti. A cominciare dall’uscita della console, annunciata più o meno contemporaneamente a Xbox 360 (all’E3 del 2005), ma poi arrivata nei negozi un intero anno dopo (in Europa quasi un anno e mezzo dopo). Nonostante questo ritardo, all’arrivo della console nei negozi, e nelle case dei videogiocatori, il servizio online di Sony era comunque drammaticamente indietro rispetto a quello Microsoft e non presentava, inzialmente, niente di simile al sistema di Obiettivi e Gamerscore che intanto spopolava su Xbox Live.
Per avere la versione Sony degli achievement, bisogna aspettare infatti fino il luglio del 2008, periodo in cui viene rilasciato un importantissimo upgrade per il sistema operativo di PlayStation 3: la versione 2.40 del firmware, quella che passerà alla storia per il fatto di permettere, finalmente, l’utilizzo della Xross Media Bar (l’interfaccia di PS3) anche a gioco lanciato. Ebbene sì, fino all’estate del 2008 non era possibile fare quasi niente durante l’esecuzione di un gioco. Difficile, quindi, inserire un sistema di achievement in un contesto tecnologico del genere.
Con la XMB in game, invece, arrivano finalmente anche i Trofei del PlayStation Network. Un sistema di ricompense decisamente molto vicino a quello degli Obiettivi di Xbox Live, complice anche il fatto che, per i tantissimi giochi multipiattaforma, la lista Trofei è nel 99% dei casi identica alla lista Obiettivi.
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"Millato" su 360 e "platinato" su PS3. Sì, probabilmente Bayonetta non mi è dispiaciuto.
Le differenze tra Trofei e Obiettivi, comunque, sono abbastanza interessanti e risultano anche particolarmente caratterizzanti per il sistema di casa Sony. I Trofei non garantiscono un certo numero di punti, come succede con gli Obiettivi e il Gamerscore, almeno non apparentemente. Sono divisi in quattro “qualità”: bronzo, argento, oro e platino. I Trofei di bronzo sono generalmente assegnati ai risultati più facili da raggiungere, mentre quelli d’argento e quelli d’oro ai più difficili. Il Trofei di platino viene sbloccato solo ed esclusivamente quando si ottengono tutti gli altri Trofei presenti in un singolo gioco (DLC esclusi, e la regola non vale per molto giochi scaricabili del PlayStation Network, in pratica quelli assimilabili ai titoli Xbox Live Arcade).
L’idea del Trofeo di platino è sicuramente l’introduzione più piacevole del sistema proposto da Sony, qualcosa di cui non esiste un equivalente su Xbox Live, a livello estetico. L’idea di dare una certa rilevanza, in questo modo, allo sforzo di completare un gioco al 100%, è stata molto apprezzata dai videogiocatori, molti dei quali si sono sentiti incentivati a “platinare” i giochi.
Non esiste un Gamerscore per il PlayStation Network, ma i Trofei portano ad una variante dello stesso, abbastanza intrigante: il livello. A furia di accumulare Trofei, il proprio PlayStation ID sale di livello. Ogni Trofeo sbloccato garantisce al giocatore una quantità (invisibile) di “punti esperienza”, che contribuisce all’avanzamento di livello. Chiaramente i Trofei di bronzo incidono meno di quelli d’argento, che incidono meno di quelli d’oro sul “livellaggio”. È possibile confrontare i propri Trofei con quelli degli amici abbastanza comodamente dalla XMB, in modo analogo a quanto succede su Xbox Live.
Insomma, Sony è arrivata in ritardo con la sua versione degli achievement, ma ha fatto tutto sommato un buon lavoro nel proporre un’alternativa completa, e a tratti originale, agli Obiettivi di casa Microsoft. Dal 2009 i Trofei sono obbligatori per ogni gioco pubblicato per PlayStation 3 e molti dei giochi usciti prima del 2009 hanno ricevuto degli upgrade atti ad aggiungere la lista Trofei. Una conferma del fatto che un servizio del genere, per essere efficace, deve essere obbligatorio per tutti gli sviluppatori. Altrimenti si finisce come nella situazione di Steam.
I Trofei sono, a oggi, l’unico sistema di ricompense a vantare ben due console “dedicate”. A PlayStation 3, infatti, si aggiunge fin dal suo arrivo nei negozi anche PlayStation Vita, la nuova console portatile di casa Sony i cui giochi supportano pienamente i Trofei, fondamentalmente con le stesse regole che valgono per PS3.
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pangeanews · 6 years ago
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Ricostruire Notre-Dame: di vetro, ipertecnologica; di plastica riciclata e legno, ecologica; oppure “com’era dov’era”? Tutto dipende dalla forza del simbolo. Che cosa rappresenta per noi quella cattedrale?
Con questo articolo vorrei inserirmi nel dibattito sulla ricostruzione della copertura e della guglia di Notre-Dame distrutte dopo l’incendio dello scorso aprile. Ricostruire ciò che è stato distrutto com’era dov’era o proporre qualcosa di nuovo di diverso?
Notre-Dame fino a prima dell’incendio del mese scorso era una chiesa gotica, costruita a partire dal 1160, modificata nei secoli più volte. In particolare alla fine del Settecento, durante la Rivoluzione francese fu spogliata di tutti i suoi simboli, che poi furono ripristinati con il restauro ottocentesco, culminato con la ricostruzione della flèche sulla crociera (la guglia più alta) nel 1860 in stile neo-gotico. Notre-Dame è in stile gotico abbiamo detto, ma è costruita ove sorgeva prima un tempio pagano, poi una basilica. Questa stratificazione storica è presente in tanti edifici di culto, come (per citare un esempio eclatante, bellissimo) il Duomo di Siracusa ove l’edificio barocco ingloba un tempio dorico, o come il tempio malatestiano di Rimini, con la sua veste Rinascimentale che si sovrappone alla chiesa gotica di San Francesco.
Immediatamente capiamo che non è semplice pensare ad una ricostruzione dell’originale, quando è tutta la storia dell’edificio a costituire un unicum originale sedimentatosi nel tempo. La prima domanda che dobbiamo porci prima di fare ipotesi di ricostruzione quindi è: cosa rappresenta oggi Notre Dame per la Francia e per il mondo intero?
Ricostruirla con una libera interpretazione dello stile gotico come fece Viollet-le-Duc, ha ancora un senso? Senza la pretesa di voler rispondere a questa domanda proviamo ad analizzare questo stile cercando più chiavi di lettura al racconto della cattedrale scritto attraverso il linguaggio dell’architettura che è tecnica e simbolo insieme.
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La scienza delle costruzioni, ci dice che il gotico è l’esaltazione della forza peso, della gravità. L’arco a sesto acuto, le guglie, gli archi rampanti, i pinnacoli fanno parte di una struttura che tende ad incanalare le forze verso il basso secondo percorsi ben definiti che permettono di esaltare la resistenza a compressione del materiale principe col quale sono costruite le cattedrali: la pietra. La pietra, estratta dalla madre terra, alla quale si ricongiunge seguendo la legge immutabile della forza di gravità. Ma l’arco a sesto acuto, la tensione alla verticalità, alla leggerezza che caratterizza questo stile, simboleggiano anche il desiderio di ascensione verso l’alto, verso Dio, di togliere peso al materiale lapideo, alle lapidi. Come nel mondo immaginato da Dante, tutto basato sulla liberazione dal peso del corpo (del peccato) per potere ascendere dalle viscere della terra, fino al cielo, a Dio.
Il medioevo fu un periodo nel quale l’uomo cercava un sapere unico, esperienziale – oggi potremmo azzardare, un approccio olistico, sistemico – “incrinato” dal rinascimento e cancellato definitivamente per secoli da Cartesio e dall’epoca dei lumi. Così almeno la pensano John Ruskin e Fritjof Capra, che in momenti diversi della storia si ribellano alla macchina del mondo newtoniana, alla rivoluzione industriale, alla crescita “uber alles” usata ancora oggi per misurare la felicità di un popolo, alla ricerca della perfezione, di una verità assoluta.
La luce nelle cattedrali gotiche filtra attraverso le vetrate policrome (la struttura reticolare sopra descritta permette di alleggerire i potenti muri romanici favorendo l’inserimento di grandi aperture) trasfigura tutto ciò su cui si posa, divenendo ispirazione e azione di quella metafora che rende viva la materia inanimata. Ruskin, nel famoso capitolo “La natura del Gotico” all’interno del saggio “Le pietre di Venezia”, esalta l’imperfezione del lavoro svolto giorno per giorno dalla comunità che si ritrova nella “fabbrica” della cattedrale. Ruskin crede nel lavoro artigianale, imperfetto ma dotato di una forte impronta morale, religiosa. Crede quindi che l’architettura sia testimonianza della storia e che l’edificio al pari degli uomini debba vivere il proprio tempo, con la consapevolezza che ciò che resiste al tempo non sono i materiali, le forme, gli stili ma ciò che questi rappresentano.
Se costruissimo esattamente ciò che c’era, ricostruiremmo il falso di Eugène Viollet-le-Duc, rifalsificandolo! Avrebbe un senso oggi?
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All’epoca non fu un incendio ma la Rivoluzione francese, che al grido “liberté, égalité, fraternité” distrusse i simboli, le sculture in particolare. Come hanno fatto di recente i talebani con le statue di Buddha, e nei secoli tanti altri, potremmo un poco provocatoriamente affermare. All’epoca la ricostruzione fu fortemente voluta da un manipolo di intellettuali capitanati da Victor Hugo con il suo romanzo Notre-Dame de Paris, usato come vessillo. La cattedrale torna luogo sacro ed assiste allo svolgersi della tragedia. Lo scrittore ha capito che l’edificio altro non è che un libro di pietra che fa paura a certi poteri che hanno attraversato le storia, bruciando libri, esiliando o uccidendo scrittori e poeti.
Oggi le nuove cattedrali sono i musei, i nuovi campanili, le nuove guglie, sono i grattaceli, si dice da tempo. Lo vediamo chiaramente ove è stata creata da zero una metropoli nel deserto. Guardiamo Dubai, c’è il grattacelo più alto del mondo, una guglia che si perde nelle nuvole a oltre ottocento metri di altezza. C’è il nuovo Louvre, la succursale; ecco dove sono i simboli e dove si sposta la cultura dell’Occidente. Del resto non è accaduto lo stesso anni orsono con le Americhe, con gli Stati Uniti, con New York e quelle sue torri gemelle che parevano i campanili di Notre-Dame? Distrutte perché anch’esse simbolo di qualcosa. Tutto cambia nulla cambia.
* Questa volta è stato un incendio a distruggere, non un attentato o una rivoluzione. Però le immagini di un simbolo in fiamme ci hanno fatto subito pensare al crollo della nostra civiltà, della nostra religione, per nostra stessa mano, generando un senso di colpa, inducendo tanti a fare donazioni generose immediate e firmate (opportunistiche?), per ripristinare immediatamente il simbolo di? La mancanza di una risposta è l’epigrafe sulla tomba della nostra civiltà.
È su questi argomenti, sui valori Cristiani che Notre-Dame come simbolo amplifica nel mondo, che dovremmo innescare un dibattito, cercare delle idee, delle provocazioni, prima che sullo stile, sulle forme, sui materiali. Ritornando a Capra: nel mondo dei consumi e dei desideri materiali indotti nel quale viviamo, abbiamo ancora qualcosa da imparare dalla lezione del gotico che vuole liberare lo spirito dal peso del corpo, accettando la nostra finitezza come esseri umani di fronte al mistero, oppure nonostante ciò che sta accadendo al nostro pianeta ci riteniamo ancora altro rispetto al resto del mondo, più forti del destino, della natura, di Dio?
A questo punto la nostra cattedrale possiamo farla come ci pare: con il tetto di vetro per portare – la luce della ragione – in un luogo reso mistico dai chiaroscuri generati delle vetrate colorate; di carbonio, supertecnologica; di luci, eterea; di legno o di plastica riciclata, ecologica; ricoperta di vegetazione, green; com’era dov’era, nostalgica; se non vogliamo costruire una cattedrale che “passa di moda” nell’arco di una stagione, la cosa che conta è avere chiaro ciò che rappresenta, la forza del simbolo, che la tecnica precisa, ma non sostituisce.
Fabio Mariani
Fabio Mariani, architetto, collabora da tempo con la Ambasz&Associates di New York e Bologna. Con l’architettura, coltiva la corsa e la poesia. Crede che l’architettura sia un’arte capace di favorire la felicità dell’uomo. Con Meltemi, nel 2017, ha pubblicato “La casa come ritratto”.
**In copertina: uno dei progetti di ricostruzione di Notre-Dame, in vetro
L'articolo Ricostruire Notre-Dame: di vetro, ipertecnologica; di plastica riciclata e legno, ecologica; oppure “com’era dov’era”? Tutto dipende dalla forza del simbolo. Che cosa rappresenta per noi quella cattedrale? proviene da Pangea.
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